LASCIA UN SEGNO
Donazioni di disegni contemporanei all'Accademia di Belle Arti di Bologna
A cura di Eleonora Frattarolo
Pinacoteca Nazionale di Bologna 13 dicembre 2011 - 13 gennaio 2012
In questa mostra ho esposto questo disegno
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Massimiliano Fabbri/Cruel nature has won again/2011/carboncino, grafite, penna biro, pastello a cera e olio, china su carta/cm 70x100 |
E ho scritto quattro pezzi, pubblicati in catalogo, dedicati ai disegni di
Carlo Sabiucciu, Octavia Monaco, Massimo Pulini e Domenico Grenci
Carlo Sabiucciu/Mare magnum/2010/penna a sfera su cartoncino, cm 72x103 |
Strano come il disegno, pratica rudimentale, bambinesca e primitiva, riesca così facilmente e con pochissimi e banali ingredienti, a liberare spazi, ad aprirli anche in voragini precipitanti e fare mondi, scenari remoti a venire, proiezioni future strappate al passato. (Sono le forme più primitive a sopravvivere no?) E strano come dentro e attraverso questi spazi e vuoti (di senso e di segno), riesca ad intrappolare e impigliare quasi pensieri, a stanarli e scovarli quindi, a ributtarli in avanti e indietro; non dico a generarli, che forse da qualche parte c’erano già, addormentati nascosti sepolti.
Il bianco immenso muto accecante e premonitore del foglio di carta che esplode e irradia, sommerge di luce violenta e vertigine, investe e resiste, a preservare il suo grado zero, così fragile e precario, così potente e assoluto. E il segno nero sulla superficie senza fine che tenta - un azzardo ancora - di ristabilire rapporti, ordini, dimensioni e geometria delle cose e geometria tra le cose. Architettura impazzita fatta di fiori, foglie e fantasmi. Invenzione del paesaggio, pura convenzione. Un sistema di rapporti e relazioni, complicatissimo e immediato al tempo stesso. Che qui subisce come un'accelerazione psichedelica che tende e porta irrimediabilmente al nero, alla copertura totale che scherma, protegge, preserva e inghiotte la luce. Trama che infittisce. Inestricabile groviglio interno buio. Cattedrale e foresta.
Il disegno come soglia allora e simile, qui più che mai, a quegli stadi intermedi tra veglia e sonno dove i pensieri corrono e passano dentro le teste in un flusso ininterrotto, come nuvole e apparizioni, e noi a seguirli, per un po’, che poi vanno via e non ci è dato trattenerli e comprenderli, che non abbiamo ne la voglia ne la forza, ne l’ostinazione e la stupidità di e per bloccarli, o approfondirli, e altri simili tentativi fallimentari per indirizzarli e ordinarli in altra sequenza dotata di senso, pena rompere e spezzare questo scorrere e arrestarlo e perderlo definitivamente. Ecco lo spettacolo della mente: cinema puro. Aereo.
E proviamo uno stato di resa invincibile, dolce e meravigliosa, che ci supera e dove finalmente sospendiamo il giudizio, la dittatura dell’intelligenza e del ragionamento (quanta importanza le diamo accidenti). In balia, come cullati. Fiume scuro. Che porta e trascina. Susseguirsi sempre uguale e sempre diverso di onde.
Si può tradurre tutto questo senza tradirlo troppo e renderlo visibile fuori, pur se parzialmente, senza farne replica sterile per turisti? Forse possiamo cercare, attraverso il disegno, pratica faticosa e meditativa, di accedere e avvicinarci a territori non del tutto dissimili… Uno stato di sospensione, un limbo. Il disegno come arma per vedere meglio, per perdersi anche, tra labirinti e specchi della mente. Strumento per ricordare, scandagliare e dragare fondali. Con capacità affiorante.
Con disegno come automatico, che da solo non basta e Sabiucciu lo sa bene, ed ecco che il gesto facile e “spensierato” si piega alla disciplina, lo scarabocchio al telefono che si innerva in struttura grazie a movimenti – occhio spalla braccio mano – quasi meccanici, telescriventi, e corpo che si fa stampante, sismografo incagliato in un loop infinito. Visione che acquista senso, spazio e tempo nella sua circolarità ossessiva, nel rallentamento portato allo spasmo, nella ripetizione mantra e dilatarsi di respiro.
No, immagini no, se non qualcosa che rimanda vagamente ad altri mondi e dimensioni, ma che sono forse solo nostre proiezioni, incagli, appigli e tentativi di orientamento, meraviglie microscopiche e invisibili di crescita e andamento vegetale, nervature e trasparenze, o andamento cellulare di carne e tessuti, legamenti, sinapsi, sottili filamenti di un sistema nervoso che si rispecchia, ribalta e rovescia in immensità celesti, spazi notturni e astronautici, buchi neri, galassie, costellazioni e cosmologie lontanissime inimmaginabili.
Corrispondenze virate al neroblu di una penna bic (molte a dire il vero, esangui). E pulviscoli fluorescenti lattiginosi, come quelli liberati dal cartoncino per effetto dello sfregamento elettrico e scorrere della punta della penna; lanugine e sbirilucchi, brina, rugiada, ragnatela tessuta nella notte, bave e luminose preziosità inattese. Che questa è la notte, così vasta, profonda e silenziosa. E noi galleggianti. Come senza gravità. In strepitosa solitudine. Fino a prima, laggiù, laboriosi come insetti.
Domenico Grenci/Testa (Trittico)/2010/tecnica mista su tela, cm 19,8x20 ciascuna |
Tre immagini della stessa donna. Vediamo il suo viso. Candido. Ripetuto da angolazioni diverse. Delicato. Rarefatto. È giovane e bella, capelli morbidi, dorati e raccolti. Un trittico seppiato. Tre visioni o rotazioni intorno alla sua testa come da schedatura segnaletica di polizia: profilo sinistro destro visione frontale. Ma queste analogie non ci aiutano molto e si fermano qui, troppo partecipe ed empatico, rapito, commosso e timoroso lo sguardo che si è posato indugiando e soffermandosi su lei.
Tre punti di vista - moltiplicazione - eppure non bastano, e il suo volto continua a sfuggire, sbanda, scivola via, come sopraggiunto a noi da un tempo che non c'è più e a cui sembra voler ritornare come risucchiata e sospinta. Solitudine che inghiotte muta; come di vecchia fotografia e fantasma. Sequenza felice scattata in quelle macchinette delle stazioni, per gioco e ricordo a venire: screpolature crepe spaccature di portafogli più tasca. Terremoti.
E alla fragilità quasi ottocentesca dei suoi lineamenti si somma quella del disegno che ha portata non finita di residuo o velocità di appunto, ancora una volta di vecchia fotografia, ingiallita seccata polverosa. Pronta e prossima a sbriciolarsi, squamare e disperdersi in scaglie. Degrado che contrasta con disegno, liquido e minerale, fluttuante e come riflesso in specchio d'acqua. Ofelia intravista. Sognata.
Solo qualche segno è rimasto, nitido, sottile e precario baluardo ad arginare l'allagarsi e allargarsi delle velature, lo schiarirsi progressivo della macchia, accumuli profondi e prosciughi. In ritirarsi trasparente di materia che lascia posto a ruggini e altre mutevoli e mobili ossidazioni.
Viso anonimo e somigliante, tolto ora da una scatola o cassetto, ferrotipo scampato e resistente che trattiene e conserva ostinatamente immagine in parte perduta, svanita e cancellata, come corrosa da sguardi e respiri troppo ravvicinati. Vapori. Umidità. Muffe. Cellule morte disperse nell'aria. Fluttuanti.
Che forse succede ogni volta che lei viene guardata e l'occhio è come se trattenesse e rubasse (involontariamente) una parte per sé, una pelle quasi trasparente o patina che irrimediabilmente svanisce staccandosi dall'originale per imprimersi nella memoria, lacuna che alimenta altra lacuna. Consumarsi e degradarsi di tutte le cose.
E allora ogni sguardo è un pericolo, un attacco, un'aggressione, e ogni volta che il disegno esce dalla sua notte proteggente di scatola preziosa e ricamata e con custodia interna di velluto, finisce per allontanarsi sempre più, spingendosi più in là nel tempo, ritornandosene all’abisso dal quale ci guarda, lentamente e lontano. Una deriva o risacca. Lei che ci guarda e, contemporaneamente, torna indietro. Sprofonda.
Già, parti di te, che non ci sono più. E' struggente, più per noi che per te probabilmente.
Che Domenico forse t'aveva disegnata con precisione e dovizia di dettagli tutti, definendo amorevolmente il paesaggio (s)conosciuto del tuo volto, la curva sensuale della bocca, la discesa e linea bella che dagli zigomi e guance va alla punta del mento e ritorna dal collo alle orecchie piccole, cartilagini fragili e misteriose; le ombre tenui e morbide che si posano, raccolgono e che un po’ sfuggenti ricalcano le sporgenze ossee della tua testa ben fatta, la carne morbida e la pelle dolcemente tesa e tersa e chiara, piacevolissimo susseguirsi di pianure e montagne, gli occhi e poi la fronte spaziosa e su, a risalire, fino ai capelli, leggeri mossi e volatili.
Però il volto, una volta finito, ha preso inspiegabilmente a ritirasi e asciugare, non come nel quadro di Frenhofer, che non c'è stata qui lotta o battaglia, ma Grenci ha assistito comunque ad una sparizione progressiva, anche se all'inizio la perdita è stata quasi impercettibile. Forse la vicinanza è allora più al ritratto magico e stregato di Dorian Gray, che però qui la mappa che regola e anima il viso si inverte e, piuttosto che caricarsi di segni malefici e tempo, il volto sembra voler tornare ad uno stadio precedente – albori - ad un chiarore che tende al nulla o ad una sorta di nirvana pacificante. Sparizione infine; calma immobile che è assenza assoluta e vuoto. Se è questo che vuoi, chi ti trattiene ancora? Quale sortilegio t’imprigiona?
O forse neanche tu vuoi sparire, e gridi o sussurri, e ti aggrappi con tutte le forze residue a questo tuo affacciarti ancora, ma noi non ti sentiamo, ricacciata e inghiottita come sei in un tempo indefinito e che non c'è più o che, semplicemente, non è il nostro. Che non ci appartiene. Solo, ci è dato vederti.
Che la tua è condizione di liquido che diviene fossile; disegno biologico che asciuga e indurisce come in sangue rappreso. Languidità di segno e tocco aggraziato che si coagulano in superficie cotta dal sole, come arsa. Sbiadita. Residuo di rogo. Fuoco bianco. Interno e divampato. Terra. Carbone. Cenere chiara. Poi nulla più.
Un soffio. Una vaga nostalgia, anzi tre.
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Octavia Monaco/Ragazza/2009/matita su carta, cm 21,8x17,5 |
Che sia vero poi che gli illustratori hanno più frecce da scagliare (o bersagli a cui mirare) rispetto agli artisti? E che quindi possono, di conseguenza, giocare pericolosamente con immagini e pensieri bambini, contraddittori se vuoi; non so dire se lineari o semplificati. Fino a liberare figure e scenari più sfuggenti e ambigui perchè il loro sguardo si colloca su di una soglia o confine, pur se partendo da un ambito in apparenza più circoscritto e vincolato a regole che, anche se ignorate, rispondono a narrazione e condensazione.
Forse, probabilmente, sono meno intimoriti perché non si prendono del tutto sul serio e così possono giocare a cambiare e confondere identità e stili, a disperdere e disseminare tracce e a mutare pelle, quasi in condizione anfibia. E poi, talvolta, penso sia il racconto, la sua dittatura, ad imporre un ritmo, un segno, un determinato tipo di impronta e umore sulla carta che, in qualche modo, prendono il via da una specie di committenza o, se si preferisce, da un richiamo, eco o domanda. Da una parte mancante. Equilibri. Fratture.
Una sorta di processo di avvicinamento e convergenza che, nell'imporre limiti, permette possibilità e invenzioni, anche maggiori schizofrenie, libertà, vertigini e visioni. Che il tentativo di risposta è dato. C'è un'umiltà (modestia?) nel seguire o accompagnare una storia (e un personaggio) che credo sia il nocciolo della questione, lo spazio che marca la differenza e diversità di questi disegni che si imparentano e incontrano con l'infanzia o che usano questa modalità e condizione per insidiare anche.
Più porte a disposizione dicevo (meno ansia di nuovo? o di più?) e, da una di queste aperture - un bosco foresta che si slarga in radura - tu che mi guardi, come travestita perchè inattesa e così mai veduta, e seria, decisamente nella parte. E lievemente malinconica, sottosopra, e un po’ malconcia e instabile, in disordine selvatico di pomeriggi e scorribande (una calza giù e una su e mi hai già conquistato). Belle scarpe. Niente male l'insieme.
Mi scruti e studi; mi chiami? Non ne sono poi così certo... E mi superi e oltrepassi e mi attraversi come giunta qui e ora da un tempo indefinito e che non posso sapere. Forse devi o vuoi guerreggiare con me e sei venuta alla battaglia... Mi scopro a pensare a chi tra i due sia il più inadeguato, come amante e nella lotta. Invincibili sovrani del niente e di tutte le cose.
E io non so veramente se crederti ed è in questo dubbio "da grandi", in quest'incertezza intelligente e poco sensibile, in questo vuoto o buco di spazio tempo (che creo involontariamente per cercare di capire) che tu mi trafiggi e inchiodi; è in questo passo in avanti - che non faccio - che sprigioni la tua malia, la tua magia antica di serpenti domati ammaestrati, la saggezza marinaia di luoghi (mai) visti e il liquido, strabico e profondo pozzo che è il lago dei tuoi occhi. Occhi misteriosi. Grandi e bellissimi.
Che il tuo è un gesto che comprende il familiare, lo contiene, e che eppure io non riconosco pienamente e allora mi sembra come di afferrare qualcosa, alcuni simboli, ma ecco che altri mi portano altrove, mi sperdono. Gladio o artigianale spada di legno? La afferri meglio per rinsaldarla e chiuderla in pugno o stai per lasciarla cadere a terra, ora?
Vergine guerriera, con lobi orecchini orientali e piume atzeche, sciamana che diventa santa ribelle in altalenante iconoclastia che rovescia simboli mutandone capovolgendone e inglobandone significati. Un'aggiunta che procede per stratificazione. Con foglioline, corone, rituali e pose cristalline quasi da statua dea, da catalogo carnevalesco o da disegno di esploratore che ritorna testimone a noi increduli.
(Ma ti conosco, da sempre.) Che mi dicono di tue avventure e scoperte, di viaggi e incontri che ti hanno cambiata, di prove vinte e addii che ritrovo ancora nell'attirante e promettente gorgo dei tuoi occhi un po’ tristi. Che mi bucano, e l’offerta del tuo sesso è anch'essa bambina perché sgretola e butta all'aria convenzioni adulte... È un gioco, lo so, ma è qui che si vacilla.
Ma se il tuo è un invito allora arrivo alla battaglia, eccomi all’avventura, mia regina pirata, che oggi non c’è più paura, corro in camera, apro il baule impolverato per armarmi e scendo immediatamente. Evviva. Aspettami.
Che il tuo è un gesto che comprende il familiare, lo contiene, e che eppure io non riconosco pienamente e allora mi sembra come di afferrare qualcosa, alcuni simboli, ma ecco che altri mi portano altrove, mi sperdono. Gladio o artigianale spada di legno? La afferri meglio per rinsaldarla e chiuderla in pugno o stai per lasciarla cadere a terra, ora?
Vergine guerriera, con lobi orecchini orientali e piume atzeche, sciamana che diventa santa ribelle in altalenante iconoclastia che rovescia simboli mutandone capovolgendone e inglobandone significati. Un'aggiunta che procede per stratificazione. Con foglioline, corone, rituali e pose cristalline quasi da statua dea, da catalogo carnevalesco o da disegno di esploratore che ritorna testimone a noi increduli.
(Ma ti conosco, da sempre.) Che mi dicono di tue avventure e scoperte, di viaggi e incontri che ti hanno cambiata, di prove vinte e addii che ritrovo ancora nell'attirante e promettente gorgo dei tuoi occhi un po’ tristi. Che mi bucano, e l’offerta del tuo sesso è anch'essa bambina perché sgretola e butta all'aria convenzioni adulte... È un gioco, lo so, ma è qui che si vacilla.
Ma se il tuo è un invito allora arrivo alla battaglia, eccomi all’avventura, mia regina pirata, che oggi non c’è più paura, corro in camera, apro il baule impolverato per armarmi e scendo immediatamente. Evviva. Aspettami.
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Massimo Pulini/Senza i sensi/2010/vetro graffiato e fotografia, cm 24x18 |
Che forse una Maddalena Penitente senza i sensi è quasi un ossimoro e non può esistere. O è proprio la condizione di penitente che porta alla rinuncia, al non più ascolto e alla progressiva sparizione e sepoltura di questi “sentimenti” conturbanti? Che il languido abbandono di cui parlano i tanti quadri che la ritraggono però - intrufolandosi di soppiatto al cospetto della sua solitudine selvatica - è proprio dei sensi, dell’esserne travolti e vinti o in sensuale e altalenate lotta con essi, dell’opporvi resistenza anche. E qui invece, come prosciugati, dopo fredda notte. Un brusco risveglio allora… Il tuo o il nostro?
Perché di relazione si tratta, anche nell’isolamento, e il disegno colma un vuoto, una distanza, come lettera o canzone d’amore, come la scrittura, che spinge sempre un po’ più in là la morte. Chi sei? (Non sono più sicuro a questo punto che tu sia una Maria Maddalena o se questo sia un travestimento, un mio abbaglio, un tranello trabocchetto insidioso della memoria.) Ma dimmi, cosa o chi ti ha abbandonato? (Che io non ti so più leggere decifrare e, se non sei una Maddalena, ma una Vergine, la pista inseguita mi porta fuori strada, deraglio, e allora qui è l'annuncio, la turbante visita angelica e celeste ad importi buone novelle, comandi e dolcezze spiazzanti, a chiederti rinunce quasi incomprensibili e silenziose. Ad importi solitudini e sordità schiaccianti.)
Probabile che il colpevole sia il disegno stesso e la mano che t'ha tracciata e incisa su vetro, abbozzata stilizzata, con segno duro tagliente sicuro, a tratti quasi spigoloso e vincente resistenza. Disegno primitivo, barbaro, per sbalzo di armatura o cesellatura di gioiello, per ex voto o tatuaggio marinaio… Sintesi di lama punta freccia (raggio laser?) a cui si chiede precisione e che non permette, qui no, ripensamenti, cancellature e intrecci. Di visione come perduta anche. Eppur bloccata, asciugata e scavata per durare. Inscritta in disegno minerale che è ricordo e ritrovamento, orma, calco, impronta fossile e presagio.
E l’artista (beffardo) che sembra voler (s)velare la tua vera anima segreta sovrapponendoti ad un negativo fotografico su vetro, lastra notturna che sta dietro dentro oltre al tuo corpo e pensieri. E che rivela, al posto del cuore e della curva bella e fragile delle ossa, durezze inattese, quasi meccaniche. Il fantasma di una penna, stilografica o a sfera, posizionato come colonna vertebrale, un innesto violento forse memore di quelli tragici di Frida Kahlo.
Povera Maddalena che non puoi più piangere, come seccata o condannata ad un pianto eterno senza più lacrime. Forse non più sognata da nessuno, congelata in un disegno che le nega pelle e aria morbida, che la fa trasparente, vuota e siderale… Solo idea e contorno. Ricordo ghiacciato che non riesce più a scaldare. O Maria Annunziata probabilmente, la cui rinuncia ai sensi giunge ancor prima dell'affacciarsi del desiderio e sentire...
Forse è un sonno il tuo e di lì a poco un intruso fatto di brezza e luce e tende e panneggi svolazzanti ti sveglierà, come nelle fiabe; un giglio in mano. A volte lo aspetti, e sembri saperlo, altre sei scossa, bruscamente, e impaurita ti ritrai come a proteggerti - movimento involontario - che lo stupore è improvviso e ti coglie impreparata.
Che allora capiamo come il disegno sia sempre un addio, di cosa come veduta o ricordata per l’ultima volta. E Pulini che decide di gareggiare e sfidare questa condizione drammatica con sguardo lieve, con una specie di disegno-ascolto che è già ricordo ed eco di altre vite; con segno fatto talvolta su pietra o, come qui, su lastra, su superficie dura, liscia, scivolosa e respingente, che la mano deve essere ferma e per nulla incerta, e la materia come attutire, frenare e trattenere la cascata di sensazioni, voci e maree interne.