Ho scritto questo testo per una mostra che Laura Baldassari ha tenuto nel 2010 alla Galleria Binz & Kramer di Colonia - Germania, integrando e sviluppando uno scambio di email tra lei e me che era stato già utilizzato nella mostra e catalogo del concorso RAM - Ravenna 2009
Due
Gli orti dipinti da Laura Baldassari sono per me una soglia, quasi una barriera. Un orizzonte negato. La stessa banda, pietra, lastra di calce grigia che inserisce alla base del quadro rafforza questa sensazione (oltre a ricordarmi l’inganno e la messa in scena della pittura).
Anche se l’orto è un tentativo di natura addomesticata, razionale, geometrica e controllata, trovo qui qualcosa della giungla (una giungla mentale e non esotica) e dell’abbandono rigoglioso e selvatico. Con spazio angusto, denso e tenebroso. Con colori e frutti come d’inverno, marmorizzati o congelati. Fragili ed inossidabili al tempo stesso. Tra il pericolo e l’attrazione.
Quadri finestre che sembrano offrire la possibilità di un viaggio misterioso, dentro ad un fitto ed infittirsi organico, sempre più vicino, prossimo ed odoroso di terra: la foresta-radice-labirinto di Calvino.
Un corpo vegetale, cinto, chiuso e segreto come giardino medioevale: corpo sconosciuto, labirintico e magico; capace di slittare e capovolgersi in paesaggio interno. In mappa, astrale e mistica. Corpo con tracciati e corrispondenze, superstizioni e amnesie. E buio fertile d’interno.
Ora mi vengono in mente due cose: Alice che rimpicciolisce (la modalità “animale” a cui è costretto o portato chi guarda questi dipinti con nature) e un film visto tanti anni fa che descrive il viaggio fantascientifico, avventuroso e quasi psichedelico di uno scienziato dentro ad un corpo umano. Di un positivismo fallimentare. Di un incubo dell’ottocento venuto a prenderti. Dell’’intrusione. E colonialismi.
È in questo cambio di scala e prospettiva che vedo la possibilità destabilizzante di perdersi e perdere le coordinate, di sbando, di un dramma o di un’avventura sempre possibile, dietro l’angolo. In attesa, perché qui il tempo è rallentato allo spasimo: forse domani, fra una settimana o un mese, la curva di quel gambo avrà superato l’ostacolo che le impedisce l’andamento verticale, oppure sarà ritorta e attorcigliata inestricabilmente su di esso. Un andamento naturale che sa di storia. Stritolante accerchiante. Una vanitas.

Le fotografie, scattate per realizzare queste nature morte, frutto di un reportage o safari domestico, nascono e sono rubate in una terra di nessuno che separa Ravenna dal mare. Un mare che si allarga, si gonfia di scuro, s’incunea e ritira. Una terra aspra e fino a ieri malsana, allagata come palude. Dove Laura trova ed innesca visioni sorprendenti e inattese, con attenzione descrizione fiamminga ed occhio botanico. Da catalogo delle vegetazioni, con specie, piante e foglie scovate studiate da occhio famelico e paziente.
Un frammento di natura disciplinata dall’uomo, eppure irriducibilmente misteriosa: natura come rappresentazione, ora compromessa e sterile, ora sprigionante forza originaria ed adattabilità. Forme resistenti in qualche modo.
Un codice, titolo cifrato, un nome, lettera o numero a indicare appartenenza; un dettaglio trafugato che prende la scena per il tutto, una varietà e differenza sottile. Un’ombra notturna, un pallore che volge le spalle al sole. Qualcosa di come mai visto prima d’ora, perché abbandonato, incustodito, nascosto e solitario in un lembo di paesaggio territorio un po’ pasoliniano. Una solitudine, non rumorosa.
Una scoperta: fragile, tattile, odorosa e spirituale, dovuta all’incontro con forme incredibili, uniche e variegate (gli organi interni di cristallo di Chen Zhen). Che ricorrono e possono svelare regole di sviluppo e crescita matematica del mondo. Modelli che ritornano magicamente.
Una visione ravvicinata, distesa e rasoterra: da insetto. Una miniatura enorme e fuori scala, affascinante e spaventosa, quotidiana eppure spiazzante. L’ingresso per una tragedia, dentro ad un giardino rigoglioso. Con fiori, frutti e spine come in una preghiera. Come di vegetazione mutante. Vegetazione di carne. Minerale e pietrificata. Fossile. Memoria di paradisi perduti e corrotti. Viaggio dantesco verso l’interno.
Pezzi e mancanze sparse di corpi possono allora forse sigillarsi a creare un nuovo panorama.
Il corpo come una geografia, la geografia e il paesaggio come un corpo, corpo familiare e sconosciuto. Trama. Ferita. Filamento. Tessuto che accenna a schiudersi ed invita.
Un cibarsi cannibale della visione. Un metabolismo implacabile. Una stanza segreta e inaccessibile su cui proiettare e ricostruire la visione esterna. Specchio dei coniugi Arnolfini, sfera di vetro che riflette.
(C’è un bellissimo quadro di Lucian Freud dove tra le foglie di una pianta in vaso si nasconde, come in agguato, un suo sorprendente autoritratto. In ascolto.)

Alle complesse, lente e curve architetture vegetali con intrecci e voluttà di corpi e crescite, si sovrappongono ora questi nuovi dipinti, che coraggiosamente spazzano il campo in una tabula rasa desertica ed inattesa. Un'accelerazione impressa, un invito al viaggio, in avanti e a ritroso contemporaneamente.
In balia, tra umori di perdita ed intuiti o possibili affioramenti, come in una sorta di regressione agli albori del tempo. Quello che resta. Prima e anche dopo la vita.
Con tempo circolare che sovrappone, stratifica e sembra, paradossalmente, donare trasparenza (questi nuovi quadri, dipinti dopo, potrebbero, come in un film di Lynch o in un libro di Auster, essere in realtà anteriori alle nature degli orti e mostrare il prima, oppure un ulteriore sviluppo possibile, parallelo, altro). Quasi un teatro vuoto.
Brandelli incerti di visioni, parti come sfuggite o viste con la coda dell’occhio. Poi rubate, custodite, salvate. O lasciate cadere e depositarsi sul fondo, accumulandosi, all'apparenza, quasi casualmente. Sedimenti marini, fertili e limacciosi come le piene ricorrenti del fiume Nilo studiate a scuola da bambino.
Di un mare sognato che tiene e porta cose. E stupore, nella meccanica dell’abbandono.
Racconto incompiuto e frammentario che si fa visione esatta, capovolgendo e inchiodando lo smarrimento alla precisione, ossessione e lucidità della pittura. Pittura che in Laura è spietata, incastro perfetto, bagliore riflesso sulla volta interna del cranio. Di ossa, tendini e nervature, con biancori, pallori ed oscurità interne. Pittura vetrificata.
Di superficie profonda. Di pelle che si apre all’abisso.

In una dissolvenza incrociata che mi passa tra gli occhi, è come se sui dipinti precedenti a questo ciclo, fosse passata un'onda, una marea lunare, una mareggiata invernale e ventosa, un'immersione di tempi lunghi che ora sta rilasciando e ritirandosi (con ruggini, ammuffimenti, pezzi di ceramiche, legni di barche e affioranti montagne addormentate).
Un velo mosso e silenzioso, una pellicola che ammanta, ammorbidisce ed intorbidisce. Con umido profumo marcescente.
E così mi pare ancora di poter intuire la fissità ieratica dei volti di icona misteriosa (glaciali come certe immagini di moda) o l'inestricabile groviglio trama delle nature, ma come se li vedessi sotto, sommersi e probabilmente perduti nell’opaco di molte velature. Visti ancora per un attimo, per un ultimo battito di palpebre prima di essere inghiottiti, slavati e sommersi. Subacquei. Come spariti, allagati da questa imprevedibile inondazione iconoclasta. Dal lento e commovente rilascio.
Da qualche parte, sotto la pelle e l’incarnato dell'acqua, nella terra nera e umida, minerale e fossile, ci sono. Che il fondo del mare è da sempre sonno ricco di tesori, d’immagini e cose rapite violentemente all'uomo (o gettate da esso). Come a voler conservare e trattenere storie, o almeno parti di esse, forse a pareggiare i doni. Capitani Nemo e musei sommersi…
Profondità da cui ogni tanto riaffiora o viene alla luce qualcosa, dimenticata, restituita muta e altra, spesso, più bella. Di uno scambio con il mare che, generoso, lascia e allo stesso tempo trattiene (una metafora fin troppo esplicita della vita). Acqua che corrode, modifica ed ingentilisce. I colori delle alghe, i muschi e i licheni che si aggrappano alle superfici ed incavi delle cose e delle statue. I sassi e i cocci di vetri levigati. I coralli e le conchiglie degli studioli.
Un patto col mare dove, come in una fiaba nordica, Laura Baldassari ha sacrificato le sue regine e i suoi frutti preziosi. (Un abbandono perpetuo, drammatico e necessario che è per me uno dei motivi di fascinazione e innamoramento della pittura.) Un rapimento.
Un abbandono da cui ripartire, alla caccia e scoperta bambinesca per le cose da niente, in attesa paziente di pescare, ritrovare o forse intravedere qualcosa o qualcuno che ti rapisca, un'immagine invocata per essere dipinta e trattenuta, a sua volta, per sempre. Un canto lanciato ai fiumi e ai mari, in attesa di risposte o responsi, tra mille voci lontane: bastimenti, ofelie, sirene, mogli e marinai, guerre, città e civiltà perdute...
C'è qui un'apertura dello sguardo, uno spaziare meravigliato e stupito. Quasi una prospettiva a volo d'uccello a sfiorare appena le cose, con profondità incerte ed orizzonti nuovi causati, o permessi credo, dall'ingresso di un fattore prima estraneo: il movimento. Movimento lieve e rallentato. Dolce e tremante.
Ritmato da stesura e velatura di pennello acquatico; liquidità che subito coagula e rapprende per farsi terrosa marmorea inattaccabile. Pittura umida che si fa asciutta e si serra. Subito, che non entri polvere.

Movimento increspato della pelle dell'acqua che filtra, si incunea, slarga e distende. Acqua che distrugge, che permette e crea condizioni per nuove vite. Palude, brodo biologico. Grafite, argento e marrone. Verdi molti. Acqua che corre, apre e si adatta, riempie gli spazi ed inzuppa le terre.
Quello che mi conquista è che dentro o sotto questa apparente desolazione e dramma avvenuto, trova spazio, mi pare, una leggerezza e delicata volontà di ricostruzione. Forse possibilità è una parola più esatta per descrivere l'occhio gentile e meravigliato che si sofferma su questi vuoti quasi asciugati dopo l'allagamento. Cercando fragili ed effimeri appigli, in fangosi accumuli o in momentanei nidi, bellezze non del tutto perdute tra questa natura secca e fossile, di strane radici, intrecci ed erba bianca, pallida e misteriosa, cresciuta sotto. Sorda, ritorta e cieca. Fluorescenze stellari. Vuoti spaziali siderali.
L'eco di un terremoto che ha scosso, risuona ancora, anche se il silenzio e la calma sono di queste immagini: le poche cose ancora mosse, vibranti. Un’onda fredda.
Sopra questo disordine lo sguardo sembra farsi pacificato e sorvolare più riposato, lieve, quieto e disteso, come dopo tragedia avvenuta, accadimento o battaglia che brucia, arde e lava via. Cenere, forse brace sepolta sotto. Lasciando paesaggi nuovi, più aperti, biologici e primordiali. Più contemplativi per il vuoto che li attraversa, segnato e graffiato da vegetazione sottile e aspra, resistente e fluttuante. Con morbidezze addormentate e notturne tra le arsure, spaccature e increspature ghiacciate. Tenebra a cui l'occhio si abitua, con presagio di mattino a venire. E vacillare di sogno.
Con inganno perpetrato, rimandato e rilanciato a potenza, come in un gioco di specchi dove i mondi si riflettono e compenetrano: il mare e il cielo stellato, la pelle dell'acqua con il minerale e la volta celeste, le vene con le crepe umide della terra e l’andamento vegetale. Le scie delle comete e le correnti.
Superfici vibranti, solcate ferite, di cui anche la pittura fa parte. Pittura radiografata che rivela e copre allo stesso tempo, in un gioco sapiente di svelamenti e cose celate, di cose racchiuse nell’ambra o perdute per sempre.
Di mondo sottosopra, di morte, sonno e meraviglia. Paesaggi desideranti.
E credo che il discorso “antico" (e ora quanto mai necessario) sulla pittura come artificio sia qui da Laura ancora messo duramente alla prova, nei rovesciamenti e ribaltamenti di prospettiva, dove le coordinate si fanno un'altra volta sfuggenti (non si sa se quella di fronte a noi sia una pozzanghera, un ristagno o una distesa d'acqua minacciosa, un fango d’altre epoche o uno dei tanti sversamenti illegali di sostanze più o meno tossiche).
Chi guarda non è però messo fuori scala come negli orti "monumentali", ma è il paesaggio stesso a farsi contemporaneamente porzione, dettaglio infimo e insignificante oppure ampia prospettiva, campo di battaglia e slargo notturno e pauroso. Immobile e tumultuoso.
Con baluginare di stelle e lucette sommerse, con schiuma fatta di perle di vetro, pietruzze, e metalli, luccicanze preziose e trasparenze iridescenti come tessuti pregiati. Di un oriente vicino.
Il liquido e bagnato degli occhi a formare piccoli laghi, pozze di raccolta. Un paesaggio che è la pelle della pittura stessa. Un corpo disteso e lacrimante. Un cimitero, un panorama disfatto e struggente eppure, come ricamato, intarsiato e cesellato, tra la precisionefiamminga e lo splendore bizantino.

Come cristallizzati da questo pianto, quasi si trattasse di una sorta di battesimo, affiorano infine questi nuovi ultimi volti. Un volto bagnato e amniotico, unico e doppio al tempo stesso. Somigliante e sconosciuto. Familiare e mai visto.
Sembiante che affiora e sembra portare con sé il compito di proseguire questo racconto di tenebra, Messaggero muto di una notte misteriosa, profonda e feconda. D’ombra e visione fertile, che dall’acqua estrae e porta in superficie uno sguardo altro, una fisionomia instabile e vibrante, contenente unicità e molteplicità. L’uno e il due.
Tre.
Forse altre possibili variazioni (numeriche e non solo) sono già contenute in questo abbozzo di dna: latenti, potenziali e suggerite conformazioni future. Invocate da pittura che si fa carezza e protegge. Come incubatrice.
Pittura che qui crea un cortocircuito del tempo attraverso una serie di ritratti labirintici ed enigmatici, contemporaneamente futuribili e antichi, difficilmente definibili. Nella sfasatura lo smarrimento calamitante.
Una conformazione ossea altra, una lieve ambiguità aliena che sembra nascere quasi come esperimento amoroso di laboratorio, dove Laura Baldassari fonde e sovrappone il suo viso con quello del suo compagno Alberto Biagetti. Un sigillo di latte e sangue. Di vita e tempo eterno. Un abbraccio struggente tra amanti. Un affido alla polvere. Lacrima vetrificata.
Un simbolo anche, che ci supera e avvolge attraverso sguardo che comprende, consola, trafigge e oltrepassa. Candido e indifeso. Puro. Come di bambino.
C’è qui qualcosa che ci chiama e si rivolge direttamente a noi (assente nei volti precedenti che marcavano distanza tra sé e lo spettatore): queste persone ci guardano, cercano i nostri occhi. Ricambiano lo sguardo e lo sostengono. Fermamente timidamente. Con una tenerezza inattesa a creare e intrecciare legami.
Immagine commovente che ha dovuto compiere un viaggio faticoso per giungere a noi, un viaggio che probabilmente non è ancora chiuso, ma aperto e circolare come in un video di Bill Viola. Che giunge a noi con vita impressa, condensata e tremante come in un ritratto del Fayum. Una testimonianza.
Un generare che passa anche dalla cancellazione, un ritrovamento e rilancio resi possibili dall’abbandono e la perdita. Una stratificazione, un volto geologico. Conformatosi per fusione e sovrapposizione. L’insieme è qualcosa in più rispetto alla somma delle parti. Differente. Vera e propria filiazione cellulare imprevedibile.
Sono ritratti a potenza, a metà strada tra la pratica e ricerca di bellezza ideale di Raffaello e quella mostruosa onnipotente del dottor Frankenstein. Per l’impossibilità audace della visione messa in campo, che gioca a tenere insieme ciò che sta fuori e ciò che è interno, visione reale e mentale, descrizione dettagliata ed invenzione. Un’affermazione stupita. Meraviglia del riconoscersi doppio, altro. Capace di corrispondenze.
Trovare corrispondenze è lanciare e scagliare una sfida al cielo e alla natura. Una legge sovvertita forse, oppure un richiamo genetico forte e ineludibile. Biologico.
Un innesto affascinante con qualcosa dentro anche di sottilmente crudele e spietato. Di tragico e sofferente come quando decidiamo di lasciarci qualcosa alle spalle. Una morte.
La contraddizione di cui sono fatti questi ritratti, la sfasatura in verità non lacerante ma dolcissima, è magnetica, attirante ed inchiodante. Una sorta di non finito, anche se condotto con una tecnica all’apparenza molto distante e lontana dall’incompiuto.
Immagine non finita che ci stana portandoci a tentare di stabilizzare, bloccare e completare la visione e la percezione di essa; allo stesso tempo, è questa instabilità che mi sembra ci tenga legati a questi volti, che ci cattura, conquista e rapisce.
Quel quasi combaciante è la voragine che si apre, il fascino e lo scarto di queste immagini. In questo scarto si aprono spazi e possibilità molteplici. Qui la trappola tesa da Laura Baldassari.
Di fronte a questa sorta di specchio bizzarro e imprevedibile (magico?), che ci restituisce e rimanda un ritratto indefinibile (e per certi versi incomprensibile nella sua semplicità lineare), testa antica e biotech, siamo di fronte ad un vero e proprio teatro della pittura; una messa in scena.
Facce mobili, con movimento impresso forse dai quadri precedenti con le acque. Spostamenti impercettibili che però minano dall’interno la costruzione del volto facendolo apparire molto distante dai precedenti. Più lievi e vitali questi, con imperfezioni quasi segrete e nascoste. Asimmetrie e deformazioni appena accennate.
Un volto dipinto che appare e si rivela ora con una forza e persistenza clamorosa.
Che resta impresso nella mente, che ogni volto guardato è un enigma.
Un’apparizione concreta, una memoria quasi tangibile. Un inganno e artificio più che credibile, bello e problematico. Necessario e fallimentare come la volontà di rappresentazione, che è snodo, cuore e nervatura di questi dipinti e dell’intero percorso di Laura Baldassari.
Qualcosa a venire e che pure è già stato. Dipingere che è tentativo instancabile, stupido, ostinato e testardo di sfidare ancora una volta il tempo e l’amnesia. Una battaglia urgente e bruciante. Una modalità o strategia di resistenza sopravvivenza forse.
Una preghiera.
Che prova a rifare il mondo, a cucire gli strappi e guarire le ferite.