Viaggio, materia, spostamenti, meccaniche, migrazioni, frequenze, lane volanti, carrozze, casse, balle, cabine elettriche, tragitti. Sono alcuni elementi che vedrete aggirandovi negli spazi labirintici del Lanificio Paoletti, nell'ambito di una mostra collettiva diffusa che stimola nuovi slanci vitali, occupando e rigenerando luoghi in stato dormiente. Gli artisti invitati sono: Federico Lanaro, Massimiliano Fabbri, Nicola Alessandrini, Hypercomf, Francesco Bocchini, Enej Gala.
A cura di Denis Riva
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Memoria vegetale. Crescita mondo giardino foresta notte 2015-16 olio su tela cm 260x330 |
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Giardino [furore] 2018 olio su tela cm 40x30 |
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Dentro dipinta gabbia 2003 olio su tela cm 54 x38 |
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Il sole esplode 2018 olio su tela cm 100x80 |
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Morte barocca di un mollusco senza memoria 2009-10 olio su tela cm 120x100 |
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Sistema limbico 2016 olio su tela cm 120x100 |
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Sonnologie [forse non ti piace la notte] 2016 olio su tela cm 120x80 |
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Un giardino in una stanza, o una foresta di segni
Della mia prima visita al lanificio insieme a Denis, conservo un'immagine che aveva catturato la mia attenzione, sedimentandosi, e che ha fatto poi, credo, propendere per la scelta di questi lavori in mostra: grandi contenitori con le lane grezze, varianti molte di bianchi, e grigi, e neri profondi e caldi, di carbone e velluto; qui una connessione tattile e visiva con la mia pittura disegnata, ma anche, scherzandoci un po' su, con l'essere pittore oggi, condizione sia di pecora bianca che nera.
Dipingere è un tentativo di
orientamento che cerca costantemente di mettere ordine al mondo, alle
cose viste e a quelle ancora da vedersi, disegnando mappe che
diventano labirinti e tracciando linee ad arginare ombre che si
trasformano in fantasmi più o meno sfuggenti.
Qualcosa che, in questa sua
improbabile, ossessiva e fallimentare necessità di definizione e
costruzione, aggiunte e sottrazioni continue, finisce, non solo per
ritrovarsi e perdersi circolarmente tra verifiche costanti e
sovrapposizioni di pelli, sguardi e gesti, ma che stupidamente
continua a farlo affidandosi testardamente alla materia, ossia a ciò
di cui siamo fatti e che sempre ci supera, imprendibile. Limite,
errore e imperfezione artigianale di gesto ripetuto senza memoria.
E inesattezza di tecnica a cui ci
si affida credendo infine di poterla governare questa materia sempre
poco addomesticabile, finendo invece per essere molto spesso mangiati
da entrambi i poli di questa oscillazione: estrema mobilità animale
da una parte, rigidità di strumenti e ripetizione dall'altra.
Eppure, proprio in questa
disciplina e irrinunciabile pratica artigianale, si annida forse la
vita, o una sua parte almeno che significa possibilità di scoperta,
ritorno, o progresso.
Occupo temporaneamente una stanza
che mi è stata affidata e che si trova alla fine di un percorso
espositivo disegnato all'interno del complesso del Lanificio
Paoletti, chiudendo una mappa che si snoda attraverso una successione
di ambienti svuotati per l'occasione, spazi aperti e restituiti che
sono quelli sonnambuli di una storica fabbrica del tessile, un tempo
cuore pulsante del paese di Follina e di un ampio territorio e
distretto circostante. Una struttura stratificatasi nel tempo, vasta,
multiforme e articolata, riattivata e produttiva ora e, al tempo
stesso, ancora abbandonata o indecisa in alcune sue parti, luogo di
contrasti: relitto ingombrante e nuove efficienze, grazia di mattoni,
cornici e finestre ad alleggerire le facciate insieme a pesantezze e
brutture venete di capannone. Ora anche studio di Denis Riva in una
delle sue molte ramificazioni. Un grande corpo con macchine che
disegnano e intrecciano orditi sincronizzati d'alta moda, e altrove
resti sparsi, abbandoni e accumuli dimenticati, scatole e imballi
slabbrati mai partiti ad amplificare, per contrasto, la lunga e
nobile vicenda di questo centro e la precisione raffinata delle trame
che da qui escono nuovamente, oggi, ancora.
L'acqua vicina, quella del fiume,
ad accompagnare il lanificio da sempre. Sgrassare la materia e
tinture sapienti d'alchimista.
Adesso sguardi che si
sovrappongono ed entrano frugando dentro a questo edificio che ha
ripreso, insieme alla sua nuova vita, a raccontare la sua storia, e
altre anche facendosi ospitale e aperto: e così, alcuni di questi
sguardi sono chiamati ad abitarlo per un po', occhi
sull'architettura, sui muri, sugli angoli e sulle macchie, sugli
interni svelati, su cataloghi e archivi che imprigionano e
custodiscono polvere e racconti, rilanciando narrazioni. Finestre
inquadrature e prospettive. Paesaggi e panorami. Persone.
Vasche e cisterne, mucchi di
bianchi molti, sfilacciati; ovatta, nodi e batuffoli, ruvidità
grezze, gialli chiari e neri e marroni e grigi, belli e morbidi.
Balle di lana aperte in attesa bloccate. Provenienze e distanze di
mondi. O riscoperte di preziosità vicine che per un certo periodo
nessuno sembrava più volere. Groviglio di tubature e intricati
sistemi di valvole. Esperimenti e lavaggi. Ricette e campionature.
Mi hanno messo in fondo. Mi piace.
Abito uno spazio che è sì luogo carico di memorie ma anche, al
tempo stesso, ambiente liberato e quasi senza più storie e inciampi,
con aria dentro, pulito e per certi versi vergine, abbastanza
anonimo, pronto a ospitare altre presenze, bello come tutti i posti
sgombri e in ordine, in attesa di essere riempiti, e interpretati, in
qualche modo. Sia chiaro, la stanza non è una scatola bianca: tracce
e impronte di rampicanti e vegetazioni resistenti che prendono e si
riprendono spazi, vetrate e finestre, infissi grigi di alluminio,
nicchie, muri un po' sghembi, righe, rilievi e sporgenze a
interrompere e spezzare le superfici. Un buco. Una specie di
andamento domestico che chiede inevitabilmente adattamento e ascolto,
una flessibilità nei confronti dei segni già presenti. Comandano
loro, come metronomo scandiscono, e non potrebbe essere altrimenti.
Una stanza a cui si arriva quindi
come a una specie di approdo, un'ultima tappa, per quanto obbligata.
Allora immagino uno studiolo quasi segreto, lo scavo di una tana, una
grotta, o una specie di rifugio costruito nella parte più distante e
inaccessibile dell'edificio, come nelle fiabe. O, per contrasto, a
una ventosità improvvisa che entra da una finestra rimasta aperta
portando quel che sta fuori, scuotendo e depositando foglie in
vortici perfetti, disegnando per un momento arabeschi e volute
gentili prima di sparpagliare disordine e cumuli casuali negli angoli
e contro i muri. Luce che filtra in raggi e lame in cui galleggiano e
si muovono pulviscoli.
Una serra, un giardino chiuso,
qualcosa che è al tempo stesso sia esterno che interno, e acquista
senso proprio in relazione alla disposizione e successione degli
altri ambienti che lo precedono, rispondente alla planimetria che si
deve percorrere e attraversare per raggiungerlo, al suo essere in
qualche modo una conclusione e una promessa d'altro: un'oasi e una
mancanza, eco della natura e ritrovamento.
Ecco la foresta, in fondo, oltre,
intravista attraverso i vetri. Quinta nera. Una certa idea o
sensazione di intimità; spazio raccolto, di sosta e abbandono. Un
nido. L'oscurità e l'attrazione fertile del notturno.
Da queste suggestioni un po'
disordinate e sparse riparto, cucendole insieme in una sorta di
geografia interna. Arcipelago che connette e congiunge isole, isole
dipinti e disegni. Dipinti e disegni che da qualche anno a questa
parte cercano di abbracciare e contenere, non so dire poi se e quanto
risolvere in equilibrio, questa tensione o movimento contrastante che
guarda contemporaneamente sia al giardino che alla foresta. O, per
dirlo con altre parole, una pratica della pittura che si costruisce
dentro e intorno a un certo ordine imposto e cercato e, al tempo
stesso, a una crescita abbastanza casuale e imprevedibile a cui dare
spazio nel procedimento e farsi dell'immagine stessa; immagine che
finisce inevitabilmente per sovrapporsi in cortocircuito
all'andamento e sviluppo vegetale: rappresenta nature e della natura
ha meccanismi e tempi che la definiscono nella sua forma e
spostamenti.
Il ramificarsi e tendere del
vegetale alla luce, l'equilibrio di foglie in sospensione che si
sovrappone alla notte interna che è delle figure, ombre sospinte e
affioranti dal nero della mente, buio di memoria lacunosa che
inghiotte, gorgo, fantasmi e scimmie che affollano il cervello e
premono per avere la meglio. Resti e frammenti alla deriva. Che anche
questa della mente è una lotta di giungla, bosco e sistema in cui
vince l'albero più forte nutrendosi degli sconfitti.
E forse la stessa cosa avviene, si
riflette e affiora sulla superficie nella battaglia del segno, nel
guerreggiare per l'ultimo gesto o pennellata che avrà la meglio
sulle altre.
E se ogni nuova mostra è la
ripresa di un discorso interrotto e sospeso, qui ancora una volta,
allora, nature e vegetazioni, nervature e venature, immagini
necessarie perché senza centro, trame e intrecci vorticanti e di
vertigine circolare, metafora del processo stesso del disegnare e
dipingere, foresta intricata da attraversare e domare, in cui
orientarsi, impronta del tempo e degli sguardi, con lentezze,
ripetizioni, occultamenti, perdite e accelerazioni, sommergimenti e
nuovi tracciati, in attesa del momento in cui tutto pare aggiustarsi
e andare a posto, un incastro; e qualcosa in più che stupisce e non
si capisce ancora bene, ma di cui si avverte la forza o una certa
inspiegabile giustezza e grazia, un ordine bello.
Così penso ancora al labirinto,
un'altra volta forse quell'autoritratto inespresso e illeggibile che
qui sembra sovrapporsi ai dipinti e disegni di nature, in cui gli
avviluppi sensuosi, curvi, rizomatici e intricati di vegetazioni
slittano e si capovolgono in radici, in visioni interne e notturne,
cieche, come a mimare volute, andamenti e meccanismi del pensiero,
archivi e solchi della della mente e della memoria, immaginazioni,
fantasie e fantasmi, inciampi. Stratificazioni e geologie, spazio
fisico in cui si impigliano e affiorano archeologicamente sedimenti,
resti, tracce, segni e visioni. Un respiro.
Quello che ho in mente per questa
stanza è di ricreare quindi un ambiente che stia un po' a metà
strada tra una serra, archivio vegetale ed enciclopedico del mondo,
quasi esotico e avventuroso, e uno studio d'artista, altro spazio
fisico e mentale che vive di accumuli, stratificazioni e
sovrapposizioni, di equilibri precari, crescite, resti, rovine,
assedi e attese. Lo faccio scegliendo e mettendo insieme una serie di
lavori, non tutti recenti, in cui la rappresentazione della natura
attiva una specie di slittamento che porta i dipinti e i disegni a
essere, non tanto o non solo finestra, apertura e sfondamento
mimetico, ma anche a volgersi verso l'interno, dentro e dietro, di
là, che sia questo il pensiero, o un corpo, o la grotta, paragoni
che in qualche modo rappresentano una metafora dello stesso processo
e procedimento artigianale, oscillante tra il cercare di stanare
qualcosa che non si sa ancora bene cosa sia, e il tentativo di
arginare la perdita. Contro la dimenticanza. Una notte rischiarata da
immagini, da ombre, margini e profili, resti intravisti e bagliori
salvati e trattenuti. Il bianco e il nero e tutti i passaggi
sensibili e gradazioni che li separano fanno di queste nature
un'astrazione, una natura disegnata.
E un allestimento che ripete,
ricalca e si adatta riprendendo il ritmo stesso delle finestre e
nicchie e spezzature molte dello spazio e pareti, annullandole,
mettendo insieme una serie di opere realizzate rigorosamente in
bianco e nero negli ultimi cinque anni, facendo incontrare e
dialogare segni, umori, gesti, materie e innamoramenti diversi, a
sottolineare quest'attrazione e volontà non troppo mimetica di
questa camera dipinta, camera in cui lo spazio è caratterizzato da
una sorta di crescita e gemmazione interna, ramificazioni alle
pareti, ombre e trasparenza di foglie, innesti e scuotersi delle cose
vibrante. Una foresta. Un giardino.
Un sistema di risonanze. Area e
zona grigia, un mare; affollarsi di segni, qui quasi a congiungersi,
altrove a segnare incolmabili distanze.
Della mia prima visita al lanificio insieme a Denis, conservo un'immagine che aveva catturato la mia attenzione, sedimentandosi, e che ha fatto poi, credo, propendere per la scelta di questi lavori in mostra: grandi contenitori con le lane grezze, varianti molte di bianchi, e grigi, e neri profondi e caldi, di carbone e velluto; qui una connessione tattile e visiva con la mia pittura disegnata, ma anche, scherzandoci un po' su, con l'essere pittore oggi, condizione sia di pecora bianca che nera.
Cumuli di legni e curve belle
ossee, impronta digitale del mondo, una fioritura vegetale e arborea
dentro al cervello, notte interna e cinema della mente, un fiore
esploso irradiante, sistema limbico con resti e scarti della pittura,
reperti belli e archeologie bambinesche, pezzi del mondo ricomposti
come pezzi di un corpo, piante grasse dipinte dal vero in giardino.
Furore. Pittura disegno e pittura collage.
Massimiliano Fabbri