giovedì 13 giugno 2019

La via della lana






Materia che avanza
Viaggio, materia, spostamenti, meccaniche, migrazioni, frequenze, lane volanti, carrozze, casse, balle, cabine elettriche, tragitti. Sono alcuni elementi che vedrete aggirandovi negli spazi labirintici del Lanificio Paoletti, nell'ambito di una mostra collettiva diffusa che stimola nuovi slanci vitali, occupando e rigenerando luoghi in stato dormiente. Gli artisti invitati sono: Federico Lanaro, Massimiliano Fabbri, Nicola Alessandrini, Hypercomf, Francesco Bocchini, Enej Gala.
A cura di Denis Riva 


Memoria vegetale. Crescita mondo giardino foresta notte
 2015-16 olio su tela cm 260x330











Giardino [furore] 
2018 olio su tela cm 40x30

Dentro dipinta gabbia 
2003 olio su tela cm 54 x38







Il sole esplode
2018 olio su tela cm 100x80

Morte barocca di un mollusco senza memoria
2009-10 olio su tela cm 120x100
Sistema limbico
 2016 olio su tela cm 120x100
Sonnologie [forse non ti piace la notte] 
2016 olio su tela cm 120x80






Un giardino in una stanza, o una foresta di segni


Dipingere è un tentativo di orientamento che cerca costantemente di mettere ordine al mondo, alle cose viste e a quelle ancora da vedersi, disegnando mappe che diventano labirinti e tracciando linee ad arginare ombre che si trasformano in fantasmi più o meno sfuggenti.
Qualcosa che, in questa sua improbabile, ossessiva e fallimentare necessità di definizione e costruzione, aggiunte e sottrazioni continue, finisce, non solo per ritrovarsi e perdersi circolarmente tra verifiche costanti e sovrapposizioni di pelli, sguardi e gesti, ma che stupidamente continua a farlo affidandosi testardamente alla materia, ossia a ciò di cui siamo fatti e che sempre ci supera, imprendibile. Limite, errore e imperfezione artigianale di gesto ripetuto senza memoria.
E inesattezza di tecnica a cui ci si affida credendo infine di poterla governare questa materia sempre poco addomesticabile, finendo invece per essere molto spesso mangiati da entrambi i poli di questa oscillazione: estrema mobilità animale da una parte, rigidità di strumenti e ripetizione dall'altra.
Eppure, proprio in questa disciplina e irrinunciabile pratica artigianale, si annida forse la vita, o una sua parte almeno che significa possibilità di scoperta, ritorno, o progresso.


Occupo temporaneamente una stanza che mi è stata affidata e che si trova alla fine di un percorso espositivo disegnato all'interno del complesso del Lanificio Paoletti, chiudendo una mappa che si snoda attraverso una successione di ambienti svuotati per l'occasione, spazi aperti e restituiti che sono quelli sonnambuli di una storica fabbrica del tessile, un tempo cuore pulsante del paese di Follina e di un ampio territorio e distretto circostante. Una struttura stratificatasi nel tempo, vasta, multiforme e articolata, riattivata e produttiva ora e, al tempo stesso, ancora abbandonata o indecisa in alcune sue parti, luogo di contrasti: relitto ingombrante e nuove efficienze, grazia di mattoni, cornici e finestre ad alleggerire le facciate insieme a pesantezze e brutture venete di capannone. Ora anche studio di Denis Riva in una delle sue molte ramificazioni. Un grande corpo con macchine che disegnano e intrecciano orditi sincronizzati d'alta moda, e altrove resti sparsi, abbandoni e accumuli dimenticati, scatole e imballi slabbrati mai partiti ad amplificare, per contrasto, la lunga e nobile vicenda di questo centro e la precisione raffinata delle trame che da qui escono nuovamente, oggi, ancora.
L'acqua vicina, quella del fiume, ad accompagnare il lanificio da sempre. Sgrassare la materia e tinture sapienti d'alchimista.
Adesso sguardi che si sovrappongono ed entrano frugando dentro a questo edificio che ha ripreso, insieme alla sua nuova vita, a raccontare la sua storia, e altre anche facendosi ospitale e aperto: e così, alcuni di questi sguardi sono chiamati ad abitarlo per un po', occhi sull'architettura, sui muri, sugli angoli e sulle macchie, sugli interni svelati, su cataloghi e archivi che imprigionano e custodiscono polvere e racconti, rilanciando narrazioni. Finestre inquadrature e prospettive. Paesaggi e panorami. Persone.
Vasche e cisterne, mucchi di bianchi molti, sfilacciati; ovatta, nodi e batuffoli, ruvidità grezze, gialli chiari e neri e marroni e grigi, belli e morbidi. Balle di lana aperte in attesa bloccate. Provenienze e distanze di mondi. O riscoperte di preziosità vicine che per un certo periodo nessuno sembrava più volere. Groviglio di tubature e intricati sistemi di valvole. Esperimenti e lavaggi. Ricette e campionature.


Mi hanno messo in fondo. Mi piace. Abito uno spazio che è sì luogo carico di memorie ma anche, al tempo stesso, ambiente liberato e quasi senza più storie e inciampi, con aria dentro, pulito e per certi versi vergine, abbastanza anonimo, pronto a ospitare altre presenze, bello come tutti i posti sgombri e in ordine, in attesa di essere riempiti, e interpretati, in qualche modo. Sia chiaro, la stanza non è una scatola bianca: tracce e impronte di rampicanti e vegetazioni resistenti che prendono e si riprendono spazi, vetrate e finestre, infissi grigi di alluminio, nicchie, muri un po' sghembi, righe, rilievi e sporgenze a interrompere e spezzare le superfici. Un buco. Una specie di andamento domestico che chiede inevitabilmente adattamento e ascolto, una flessibilità nei confronti dei segni già presenti. Comandano loro, come metronomo scandiscono, e non potrebbe essere altrimenti.


Una stanza a cui si arriva quindi come a una specie di approdo, un'ultima tappa, per quanto obbligata. Allora immagino uno studiolo quasi segreto, lo scavo di una tana, una grotta, o una specie di rifugio costruito nella parte più distante e inaccessibile dell'edificio, come nelle fiabe. O, per contrasto, a una ventosità improvvisa che entra da una finestra rimasta aperta portando quel che sta fuori, scuotendo e depositando foglie in vortici perfetti, disegnando per un momento arabeschi e volute gentili prima di sparpagliare disordine e cumuli casuali negli angoli e contro i muri. Luce che filtra in raggi e lame in cui galleggiano e si muovono pulviscoli.
Una serra, un giardino chiuso, qualcosa che è al tempo stesso sia esterno che interno, e acquista senso proprio in relazione alla disposizione e successione degli altri ambienti che lo precedono, rispondente alla planimetria che si deve percorrere e attraversare per raggiungerlo, al suo essere in qualche modo una conclusione e una promessa d'altro: un'oasi e una mancanza, eco della natura e ritrovamento.
Ecco la foresta, in fondo, oltre, intravista attraverso i vetri. Quinta nera. Una certa idea o sensazione di intimità; spazio raccolto, di sosta e abbandono. Un nido. L'oscurità e l'attrazione fertile del notturno.

Da queste suggestioni un po' disordinate e sparse riparto, cucendole insieme in una sorta di geografia interna. Arcipelago che connette e congiunge isole, isole dipinti e disegni. Dipinti e disegni che da qualche anno a questa parte cercano di abbracciare e contenere, non so dire poi se e quanto risolvere in equilibrio, questa tensione o movimento contrastante che guarda contemporaneamente sia al giardino che alla foresta. O, per dirlo con altre parole, una pratica della pittura che si costruisce dentro e intorno a un certo ordine imposto e cercato e, al tempo stesso, a una crescita abbastanza casuale e imprevedibile a cui dare spazio nel procedimento e farsi dell'immagine stessa; immagine che finisce inevitabilmente per sovrapporsi in cortocircuito all'andamento e sviluppo vegetale: rappresenta nature e della natura ha meccanismi e tempi che la definiscono nella sua forma e spostamenti.
Il ramificarsi e tendere del vegetale alla luce, l'equilibrio di foglie in sospensione che si sovrappone alla notte interna che è delle figure, ombre sospinte e affioranti dal nero della mente, buio di memoria lacunosa che inghiotte, gorgo, fantasmi e scimmie che affollano il cervello e premono per avere la meglio. Resti e frammenti alla deriva. Che anche questa della mente è una lotta di giungla, bosco e sistema in cui vince l'albero più forte nutrendosi degli sconfitti.
E forse la stessa cosa avviene, si riflette e affiora sulla superficie nella battaglia del segno, nel guerreggiare per l'ultimo gesto o pennellata che avrà la meglio sulle altre.

E se ogni nuova mostra è la ripresa di un discorso interrotto e sospeso, qui ancora una volta, allora, nature e vegetazioni, nervature e venature, immagini necessarie perché senza centro, trame e intrecci vorticanti e di vertigine circolare, metafora del processo stesso del disegnare e dipingere, foresta intricata da attraversare e domare, in cui orientarsi, impronta del tempo e degli sguardi, con lentezze, ripetizioni, occultamenti, perdite e accelerazioni, sommergimenti e nuovi tracciati, in attesa del momento in cui tutto pare aggiustarsi e andare a posto, un incastro; e qualcosa in più che stupisce e non si capisce ancora bene, ma di cui si avverte la forza o una certa inspiegabile giustezza e grazia, un ordine bello.
Così penso ancora al labirinto, un'altra volta forse quell'autoritratto inespresso e illeggibile che qui sembra sovrapporsi ai dipinti e disegni di nature, in cui gli avviluppi sensuosi, curvi, rizomatici e intricati di vegetazioni slittano e si capovolgono in radici, in visioni interne e notturne, cieche, come a mimare volute, andamenti e meccanismi del pensiero, archivi e solchi della della mente e della memoria, immaginazioni, fantasie e fantasmi, inciampi. Stratificazioni e geologie, spazio fisico in cui si impigliano e affiorano archeologicamente sedimenti, resti, tracce, segni e visioni. Un respiro.

Quello che ho in mente per questa stanza è di ricreare quindi un ambiente che stia un po' a metà strada tra una serra, archivio vegetale ed enciclopedico del mondo, quasi esotico e avventuroso, e uno studio d'artista, altro spazio fisico e mentale che vive di accumuli, stratificazioni e sovrapposizioni, di equilibri precari, crescite, resti, rovine, assedi e attese. Lo faccio scegliendo e mettendo insieme una serie di lavori, non tutti recenti, in cui la rappresentazione della natura attiva una specie di slittamento che porta i dipinti e i disegni a essere, non tanto o non solo finestra, apertura e sfondamento mimetico, ma anche a volgersi verso l'interno, dentro e dietro, di là, che sia questo il pensiero, o un corpo, o la grotta, paragoni che in qualche modo rappresentano una metafora dello stesso processo e procedimento artigianale, oscillante tra il cercare di stanare qualcosa che non si sa ancora bene cosa sia, e il tentativo di arginare la perdita. Contro la dimenticanza. Una notte rischiarata da immagini, da ombre, margini e profili, resti intravisti e bagliori salvati e trattenuti. Il bianco e il nero e tutti i passaggi sensibili e gradazioni che li separano fanno di queste nature un'astrazione, una natura disegnata.
E un allestimento che ripete, ricalca e si adatta riprendendo il ritmo stesso delle finestre e nicchie e spezzature molte dello spazio e pareti, annullandole, mettendo insieme una serie di opere realizzate rigorosamente in bianco e nero negli ultimi cinque anni, facendo incontrare e dialogare segni, umori, gesti, materie e innamoramenti diversi, a sottolineare quest'attrazione e volontà non troppo mimetica di questa camera dipinta, camera in cui lo spazio è caratterizzato da una sorta di crescita e gemmazione interna, ramificazioni alle pareti, ombre e trasparenza di foglie, innesti e scuotersi delle cose vibrante. Una foresta. Un giardino.
Un sistema di risonanze. Area e zona grigia, un mare; affollarsi di segni, qui quasi a congiungersi, altrove a segnare incolmabili distanze.

Della mia prima visita al lanificio insieme a Denis, conservo un'immagine che aveva catturato la mia attenzione, sedimentandosi, e che ha fatto poi, credo, propendere per la scelta di questi lavori in mostra: grandi contenitori con le lane grezze, varianti molte di bianchi, e grigi, e neri profondi e caldi, di carbone e velluto; qui una connessione tattile e visiva con la mia pittura disegnata, ma anche, scherzandoci un po' su, con l'essere pittore oggi, condizione sia di pecora bianca che nera.

Cumuli di legni e curve belle ossee, impronta digitale del mondo, una fioritura vegetale e arborea dentro al cervello, notte interna e cinema della mente, un fiore esploso irradiante, sistema limbico con resti e scarti della pittura, reperti belli e archeologie bambinesche, pezzi del mondo ricomposti come pezzi di un corpo, piante grasse dipinte dal vero in giardino. Furore. Pittura disegno e pittura collage.

Massimiliano Fabbri