domenica 24 aprile 2016

VIE DI DIALOGO/5

MASSIMILIANO FABBRI - LUCA CACCIONI
Sala Pamphili, Complesso degli Agostiniani, Rimini
23 aprile  - 10 luglio 2016

A cura di Claudia Collina e Massimo Pulini

IBC Istituto per i beni artistici e naturali della regione Emilia-Romagna 
BIENNALE DISEGNO



Memoria vegetale (impronte e innesti)
2015












Ramificare il pensiero (nature e venature)
2016






Memoria vegetale. Crescita mondo giardino foresta notte
2015-16









Scrivere il tempo segnare intorno
2016









Mappe e labirinti. Tu, mia faccia o foglia o strato
2015-16








http://ibc.regione.emilia-romagna.it

L’immanenza di Massimiliano

Massimo Pulini


Nei centri storici di quelle città che ebbero un importante ruolo tra il tardo medioevo e la prima stagione dell’umanesimo, da qualche decennio si è sviluppata una intensa e singolare attività di indagine archeologica. Molti dei palazzi e delle corti benestanti di quel tempo disponevano di un luogo deputato a discarica privata dove, assieme ai rifiuti di cibo e di corpo, si gettavano utensili smessi, oggetti e cocci del vasellame che andava rotto nell’uso. Sicché quel che allora era un pozzo nero, una latrina nascosta e maleodorante, ora si presenta come un giacimento di reperti che ci parlano della vita quotidiana di un preciso momento storico.
La stessa parola giacimento, che noi usiamo come sinonimo di miniera e di patrimonio da conservare e valorizzare, viene in realtà dal latino jacère: che significa “essere gettato”.
Questo il volubile destino dell’uomo e dell’arte, come un ricordo nascosto, un bene può tornare ad essere una risorsa anche dopo che si è rifiutato.

Ho sempre associato l’intensa e generosa ricerca di Massimiliano Fabbri a una singolare indagine sul giacimento che è seppellito sotto la crosta cranica, su quell’abisso del cervello umano nel quale la quotidianità getta i sedimenti di immagine, di volti e di cose che ci passano davanti agli occhi.
La stratificazione è una costante nel suo lavoro, giunge a sedimentare, una sull’altra, forme diverse che spesso si dispongono in sequenza di piani, quasi tentassero una prospettiva di valori. Questa scala segnica e tonale, fatta di preminenze e cancellature, questa gradazione attribuita alle immagini chiamate a raccolta, costruisce una catasta di ricordi e di percezioni.
Affiorano visi frontali, piante e fiori, animali e minerali, come governati da una urgenza di catalogazione affettiva, individuale, ma queste grandi tavole sinottiche che parlano dei tre regni terrestri sembrano comporre, ai miei occhi, un immenso cervello, un infinito labirinto enciclopedico.

Forse il primo carattere che emerge dallo stile di Massimiliano è la marcatura del segno.
Un solco deciso e profondo si muove come un vomere nel campo visivo e ogni volta si incarica di vincere lo strato già composto, gli appezzamenti cromatici e grafici già ospitati dal supporto nella precedente fase del lavoro, quasi fossero ondate di pensieri che si contendono la vivida superficie della nostra mente. La concentrazione del nostro presente.
Nasce forse dal bisogno di marcare un senso, un significato, quello che accompagna le traiettorie della sua ricerca artistica, per questo vi è necessità di trasformare il segno in solco.
Forse tutte le arti, visive e non, cercano di corteggiare la memoria per farle imprimere un ricordo, ma certi disegni, certi dipinti, sembrano fare di questa vocazione la ragione stessa del proprio carattere.
Anche quella sistematica frontalità delle forme si pone davanti a noi con un senso di immanenza.
Ecco, forse è bene che mi soffermi su questo concetto, perché meglio di altri, tra quelli che si possono usare sul conto di Massimiliano, mi sembra che sintetizzi la portata e il programma intrinseco della sua ricerca artistica.
Associo a questi disegni e a questi dipinti l’immanenza, per il loro porsi in modo del tutto antitetico al fin troppo abusato senso di trascendenza. Mi appaiono frutto di una pratica che prescinde dalla spiritualità, per elevare la concretezza, per fare della stessa immagine una cosa fisica, presente e autonoma.
Immanente deriva dal latino e associa i termini in e maneo, che indicano il ‘rimanere in quiete’, entro di sé, come a indicare un atto contenuto e consumato nel soggetto stesso che lo compie.
Dall’umano per l’umano, lontano dai retaggi di una devozione rivolta all’etereo, al divino. Sono opere piantate in terra, radicate e assertive.

Un forte ascendente grafico si percepisce anche nella pittura di Fabbri.
Ne conosco gli esordi e il peso che hanno avuto i disegni aggrovigliati di Giacometti, le matasse di ferro che costituivano insieme lo scheletro delle sculture e il tragitto contorto dei pensieri, del grande artista svizzero.
Poi l’interesse profondo e sincero di Massimiliano verso ciò che il mondo sofisticato, e spesso snobistico, dell’arte contemporanea quasi non considera, verso quella ‘grafica di consumo’ costituita dal fumetto.
Con qualche ipocrisia si è di recente cercato il nuovo termine di graphic novel per tentare un riscatto che era già evidente e naturale agli occhi di osservatori attenti e obiettivi.
Da quel tipo di disegno, che ha ancora conservato la voglia di narrare il mondo, è possibile ricavare linfa di racconto e stimoli di stile. Anche in questo riferimento si può rintracciare da quale parte sta l’artista di Cotignola, circa l’antinomia tra trascendente e immanente, perché la muta poesia dell’arte aulica in quei ‘disegni corsari’ prende parola, anzi la parola ne è lo statuto fondante, vocativo. E il portato dialettico, di una pratica che si lega alla cronaca quanto alla letteratura, rimane anche là dove non è accompagnata dallo scritto.
Massimiliano Fabbri innesta quella calcofilia a un colto sedimento di forme e di immagini che giungono da una stretta relazione con la storia dell’arte, sia antica che recente, con una attenzione verso l’iconografia scientifica e antropologica.
Le grandi mappe che costituiscono l’ultimo lavoro, sorta di erbari planisferici, sono esemplari in tal senso e dispiegano quello sguardo sulla natura che, nella pittura parietale dell’antica Roma, veniva chiamata ‘viridiana’.
Talvolta la frontalità tassonomica di cui ho parlato attinge dai libri di botanica o di zoologia, quasi quanto deriva dalla schedatura criminale, da un aggiornato archivio lombrosiano.
Il suo stile potente e sottolineato si configura come un atto che, oltre a restituire un ritratto personale alla forma, ne intende imporre un nome.
Un disegno che nomina le cose.